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Outdoor Education, l’esperienza di un’educatrice

(…) Io per sentirmi bene devo avere sia il mare che la montagna, Naturalmente non vale per tutti, ma credo che in genere si è molto condizionati dal proprio luogo d’origine. Il modo di pensare e sentire sono legati alla geografia, al clima, al vento dei posti dove uno è cresciuto (…) Murakami Haruki, Kafka sulla spiaggia

Partirei da qui, ma, per quel che riguarda la mia storia, anche da più lontano. Da un documentario Rai in bianco e nero, quando la tv aveva un unico canale, un documentario dove un bambino camminava su grandi massi bianchi, e la voce narrante diceva, pressappoco: “Sono nato in un luogo di sassi. Il terreno su cui uno nasce influisce sul suo carattere, sui suoi pensieri, sul suo destino”.

Avevo più o meno l’età di quel ragazzino. La questione mi colpì tantissimo, perché apriva la mia mente, mi permetteva di comprendere che la connessione del corpo all’universo è grandiosa, e che trovarsi sotto i piedi la sabbia del deserto o le radici di un sottobosco, può dare direzione ai tuoi pensieri, al tuo linguaggio, al tuo carattere, alla tua anima. Per me è bastato cambiare casa a tre anni, passare dal quartiere Prati al quartiere Talenti, qui a Roma, per non avere più sotto le scarpette il brecciolino del giardinetto di P.zza Strozzi, e una visione della libertà circoscritta ad un recinto, ma immense distese di campi, senza limite che non i salici, le acque paludose della marana, improvvise pinete, ruscelli sotterranei, lontani casolari, le greggi nel prato sotto casa, i filari di platani, il cielo, il cielo, il cielo, mai segregato dalle cime dei palazzi, la brina e il suo suono sotto le suole di caucciù, il terreno spaccato ed arido d’estate, il profumo della mentuccia nel prato, che a onde saliva a mezza sera dai campi, quando tornavamo dalla messa con mia madre.

E’ bastato questo a modificarmi. Magari non ci ho fatto caso. Ma poi, nel cercare un appartamento, volevo avere davanti dello spazio, lontano, una campagna. Trovandomi per caso in una scuola, non ne sono più andata via, perché c’era lui, il Giardino.

E a Roma, scuole con quel Giardino, non ce ne sono molte. E’ un giardino in una borgata. Un pezzo di terra in fondo ad una piccola via. Davanti pini e cedri del Libano, dietro alberi da frutto, Tigli, Albizia, Paulonie, Loti, conifere. Un terreno rustico, mai piano, con le radici che affiorano. Se piove c’è il fango, se fa caldo bisogna innaffiare il terreno, per evitare che salga la polvere. E’ grande, si può correre, si possono tendere dei cavi tra gli alberi e metterci delle garze, delle sete, e aspettare che il vento le sollevi. Frusciano sul viso, sulle mani.

Quando cade un albero, il tronco viene coricato, intorno ci si avvicinano delle pedane, delle tavole, dei pneumatici, delle cassette della frutta. Tutto cambia, si sale, si scivola, si prova l’equilibrio. Se c’è il muschio si accarezza, dentro c’è della stoffa simile, e si chiama velluto. Il muschio c’è in alcuni punti. Dove c’è umido, ai bordi delle scalette, dove la grondaia perde, sui tronchi tormentati della Paulonia. Negli avvallamenti si raccoglie la pioggia, e se si cerca un rametto si fanno le onde, e si rimesta il fango, e l’acqua si addensa, si sconvolge. L’aria ha un odore ed un sapore. Sotto il susino i frutti caduti marciscono, ma poi in autunno sul terreno rimane un tesoro di semi, tanti semi, e trovarli significa “leggere”, letteralmente leggere il terreno, che mostra i suoi strati, la sua ricchezza, i suoi simboli da discriminare: ci sono i fili d’erba, le verdure, i sassi, le cortecce sfaldate, i frammenti di ramo, e quasi sepolti, i semi.

Per salire su una amaca presa di seconda mano, bisogna fare tanto esercizio, ma anche a ribaltarsi c’è del divertimento. Se appendo dei lenzuoli agli alberi e mi infilo in qualche piega, mi sembra di essere di nuovo in un antro di amore e sicurezza. Il vento mi sospira vicino. Se ad una carrucola che corre sullo spago, appendo una maniglia di gomma, prova e riprova, saprò tirare su le gambe e farmi trasportare da un punto all’altro. Il mio corpo diventa forte, diventa pronto, sa tendersi, sa sollevarsi, i piedi sanno tenermi su, sanno percorrere strade aspre, tortuose, o morbide, odorose di fiori. I fiori li abbiamo piantati insieme. Siamo insieme in un vasto luogo in cui vibra una vita incessante. Se voglio vedere un corso d’acqua prendo delle canaline di plastica e ve la faccio scorrere, ma per scorrere il canale deve avere una pendenza. A seconda della pendenza l’acqua acquista velocità o la perde. A seconda di come la verso, se lentamente, se poca, o se tanta di botto, l’acqua modifica la sua andatura. Se ad un certo punto del canale, piazzo un sasso, l’acqua ha un ostacolo, a seconda di quanto è grande il sasso, l’acqua può fermarsi e poi superare la diga.

Tutto quello che vedo lo apprendo. Non so di averlo appreso. Lo so, e basta, ed un giorno mi tornerà utile. All’acqua si può dare un colore. Se sommo i colori avrò colori diversi. Non so perché, ma imparo a dare un nome ai colori. Un nome riconosciuto. Nessuno me lo ha davvero insegnato. I colori li ho trovati da me, o loro hanno trovato me. Con l’acqua posso impastare. La terra, o qualche cosa che ho portato da dentro. Con l’acqua posso lavare, bambole, panni, piattini. La posso intrappolare e poi liberare, da un recipiente all’altro. L’acqua non ha proprio una forma, l’acqua diventa una forma. E può cambiare, tutto può cambiare, ma l’acqua si trasforma più di tutti: sente il freddo, sente il caldo, sa includere, sa sommergere, ma non nasconde. Non sa nascondere.

Posso correre, posso isolarmi. Con i tronchi abbiamo delimitato un cerchio, dentro c’è una barca. Una barca vera. Ci vuole abilità per issarvici, dentro ci sono i sedili, e non facciamo che salire, sederci, scendere, arrampicarci, spostare.

Se cado, cado sull’erba. E l’erba non è sempre uguale. A volte è alta, quasi quanto me. In inverno i miei piedi sono protetti dagli stivali di gomma. E’ difficile metterli, ma poi, improvvisamente, il piede entra dentro bene, le mani possono aiutare qualcuno che ancora non ce la fa. Sotto gli stivali il terreno è duro, freddo, qualche volta scricchiola se c’è un po’ di ghiaccio, a volte si scivola, se c’è l’acqua. Se alzo gli occhi vedo un cielo grigio e la pioggia che cade, e rami, rami nudi. A terra ancora le foglie del tiglio che cambiano colore. Gialle, verdastre, brune, rosse, e dal colore che hanno si riconosce il Tempo, e come e quanto ne è trascorso, diverso da una foglia all’altra, diverso da persona a persona.

Poi, un giorno, il freddo finisce, il giallo rimasto è quello dei fiori nuovi, e delle susine goccia d’oro, e del terreno caldo e spento. Non devo più mettere gli stivali che mi lessano i piedi, e ho i sandali. Ma i sandali si aprono, le stringhe si staccano, i cinturini mi stringono le caviglie, le scarpette di tela hanno la gomma che mi riscalda il piede. Allora qualcuno mi dice: “Toglili. Se vuoi, toglili”. Imparo ad allentare fibbie, a riunire i sandali su un muretto, dove prima allineavamo gli stivali.

I piedi toccano il mondo. Sono teneri, vulnerabili. Eppure corrono sulla terra, non sentono i sassi, imparano ad evitarli, lo fanno da soli, che strano, nemmeno più ci faccio attenzione. Duro, vellutato, frusciante, spinoso, fresco, in discesa, in salita. Salto! …Volo.

Rosaria Migliarese 

Roma, 23 Gennaio 2021

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