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La pedagogia del rischio: il gioco in natura tra movimento, emozioni e apprendimento

Una questione complessa connessa all’educazione in natura è quella che riguarda il rischio legato al manipolare materiali naturali e all’esplorare ambienti naturali. Ancora troppo spesso gli adulti vedono l’esterno e lo stare fuori come una minaccia e, viceversa, tendono ad associare gli ambienti chiusi con la sicurezza.

Purtroppo non molto è cambiato da quando nel 1950 venivano pubblicate in Italia le parole di Maria Montessori: “Nel nostro tempo e nell’ambiente civile della nostra società, i bambini vivono molto lontani dalla natura ed hanno poche occasioni di entrare in intimo contatto con essa o di averne diretta esperienza. Ci sono ancora troppi pregiudizi, su tale argomento, perché tutti ci siamo fatti volontariamente prigionieri, e abbiamo finito con l’amare la nostra prigione e trasmetterla ai nostri figlioli. (…) La natura, in verità, fa paura alla maggior parte della gente. Si temono l’aria e il sole come nemici mortali. Si teme la brina notturna come un serpente nascosto tra la vegetazione. Si teme la pioggia quasi quanto l’incendio.” (Maria Montessori, La scoperta del bambino).

Dunque l’esperienza in natura dei bambini viene associata con una condizione minacciosa di rischio. Eppure negli ultimi anni, grazie alla spinta delle sempre più diffuse esperienze di outdoor education, la dimensione del rischio nel gioco dei bambini ha perso la sua ombra intimidatoria per lasciare spazio alle sue forti potenzialità educative. Si è così venuta delineando una vera e propria “Pedagogia del rischio” legata in particolare alle esperienze di educazione in natura: “Un elemento tipicamente favorito dal rapporto con l’ambiente naturale è l’avventura, la ricerca del nuovo, in grado di dilatare il campo di esperienze spronando i bambini ad andare oltre il già noto. Si tratta di un’educazione al rischio che dovrebbe tradursi nella disponibilità adulta di consentire ai bambini di affrontare personalmente, e quindi il più responsabilmente possibile, una serie di rischi alla propria portata in modo da accompagnarli in un percorso di conoscenza di sé, dei propri limiti e delle proprie capacità, riconoscendo ciò che può essere “pericoloso”.

Le emozioni legate all’imprevisto e a compiere scelte consapevoli, sono un ambito essenziale di formazione nell’ottica di una vera e propria educazione alla responsabilità. Un temporale, un passaggio difficoltoso, ma anche una discesa ripida da una collina, l’attraversamento di un fiume, impongono al bambino un rapporto con la paura, il coraggio ed il desiderio di superare la prova e sperimentare la gioia di averla superata. Esperienze che costituiscono un “materiale” importante per l’educatore e l’educatrice, aiutandoli ad accompagnare e a elaborare tali esperienze nel racconto, a caricarle di significati e di riflessioni.

Un bambino abituato a vivere in ambienti artificiali, nei quali tutto è stato pensato per eliminare rischi e imprevisti, non è un bambino che non corre pericoli, è un bambino lasciato solo in un mondo fatto di artificiosa prevedibilità. È un bambino circondato da adulti incapaci di sostenere il rischio, ineluttabile caratteristica del mondo, troppo apprensivi per permettergli di sperimentare ciò che vorrebbe sperimentare o troppo indaffarati per accompagnarlo in questa sua avventura. È noto, tra l’altro, che la casa, che dovrebbe essere l’ambiente “sicuro” per eccellenza, è il luogo nel quale avviene il maggior numero di incidenti nell’infanzia” (Michela Schenetti, Naturalmente gioco).

Per far crescere i bambini è necessario  sciogliere il laccio soffocante dell’iperprotezione, lasciare che i bambini vengano esposti a rischi “salutari”, che possano giocare in ambienti naturali affinché si confrontino con il benefico rischio dell’ignoto che è il presupposto per apprendere, per mettere alla prova i propri limiti, per scoprire la propria forze e le proprie capacità, per collaborare con gli altri. E questo è possibile, come aveva già intuito la Montessori, se ci liberiamo dalla prigione degli ambienti artefatti e usciamo fuori, nella natura: “Le energie muscolari dei bambini anche piccolissimi sono superiori a quanto supponiamo: ma per rivelarcele occorre la libera natura. Se i bambini sono a contatto della natura, allora viene la rivelazione della loro forza.”

Ma per liberare i bambini, noi adulti dobbiamo avere il coraggio di sostenere il rischio; dobbiamo, cioè, accettare che il gioco in natura comporta inevitabilmente la dimensione del rischio, ma proprio questa è una caratteristica che ha innumerevoli benefici essenziali per la crescita e il benessere. Se ci pensiamo, questa riflessione si amplia per abbracciare non solo l’esperienza in natura, ma qualsiasi tipo di esperienza esplorativa dei bambini: crescere dovrebbe essere un’avventura. Il rischio, soprattutto in natura ma non solo, se conosciuto può essere calibrato e diventare una preziosa esperienza educativa.

Ricordiamoci che un conto è impedire ai bambini di mettersi in pericolo, altra cosa è immobilizzarli,  imprigionarli in una condizione per loro innaturale per evitare che si confrontino con qualsivoglia tipo di rischio: “Rischio e pericolo, seppure con alcuni punti di congiunzione, sono due situazioni molto diverse. Il rischio è un elemento fondamentale del discorso pedagogico: un bambino, una bambina, deve poter rischiare. L’affrontare il rischio porta all’autonomia. Il bambino che tenta di arrampicarsi sui rami di un albero non si sta mettendo in una posizione di pericolo, a meno che l’altezza o la fragilità dei rami non lo comportino e in questo caso è doveroso l’intervento dell’adulto, sta, invece, entrando in una situazione di rischio. Impedire al bambino di mettersi in una situazione di pericolo e impedirgli di assumersi la responsabilità di affrontare un rischio sono discorsi diversi. Nel primo caso si tutela il bambino, nel secondo lo si castra.

Le scuole si stanno trasformando in ambienti iperprotettivi in senso paternalistico, dove l’adulto è esageratamente presente e le sue azioni sono a tutela non del bambino ma delle ansie dell’adulto stesso. Una vita senza rischi è una vita immobile. Movimento ed emozione sono parole che hanno una radice comune nel termine latino motus e per il bambino sono fondamentali. Il movimento, il muoversi, il rischiare sono legati all’emotività che è il motore dell’apprendimento. La staticità è esattamente il contrario” (Enrico Roversi, Rischiando s’impara). 

Per questo il ruolo dell’adulto non può diventare quello del carceriere o del controllore, bensì dovrebbe essere un facilitatore che sostiene il gioco, la libertà e l’esplorazione dei bambini aiutandoli a valutare e gestire i rischi e a fare attenzione ai pericoli. In questa prospettiva l’adulto e il bambino diventano alleati visto che, come illustrano le osservazioni di Peter Gray, i bambini sono naturalmente predisposti ad autoregolarsi, cioè a intuire i propri limiti e sentirsi capaci di sperimentare solo ciò che sono pronti a fare. Un bambino che sale su un albero arriverà, se non viene sorretto da un adulto, solo fin dove è capace di arrivare e fin dove si sente pronto a rischiare. La paura lo fermerà davanti a ciò che non è pronto ad affrontare e, se ha instaurato un rapporto di fiducia, chiederà aiuto all’adulto quando ne avrà veramente bisogno. Per questo motivo secondo Gray il gioco libero ed autoregolato, anche in natura, è più sicuro del gioco diretto dagli adulti: “I bambini sono altamente motivati al gioco rischioso, ma sono anche molto bravi a capire le proprie capacità ed evitare i rischi che non sono pronti ad assumersi, sia dal punto di vista fisico che emotivo. I nostri figli sanno molto meglio di noi ciò per cui sono pronti (…)

La cosa buffa è che è molto più probabile che i bambini si facciano male praticando sport sotto la direzione di adulti, piuttosto che nei loro giochi autogestiti e scelti liberamente. Questo perché l’incoraggiamento degli adulti e la natura competitiva degli sport portano i bambini ad assumersi rischi, con eventuali danni per sé e per gli altri, che non sceglierebbero di assumersi nel gioco libero. E anche perché sono incoraggiati, in questi sport, a specializzarsi, e quindi a usare in modo eccessivo specifici muscoli e articolazioni. I bambini che giocano per divertirsi raramente si specializzano (apprezzano la varietà nel gioco) e si fermano quando si fanno male, o cambiano modo di giocare. Inoltre, visto che lo scopo è divertirsi, fanno anche attenzione a non fare male ai loro compagni. Gli adulti, che sono tutti presi dalla vittoria e magari sperano in un’eventuale borsa di studio, vanno contro i mezzi predisposti dalla natura per prevenire i danni” (Peter Gray, Il gioco rischioso: perché ai bambini piace e perché ne hanno bisogno).

L’adulto “facilitatore” è anche consapevole che il gioco rischioso ha uno specifico senso evolutivo legato allo sviluppo della gestione emotiva: “La natura predispone i bambini perché imparino da soli la resilienza emotiva tramite il gioco rischioso, in grado di indurre emozioni. Alla lunga, si fa loro un danno maggiore ostacolando questo tipo di gioco piuttosto che permettendolo” (Peter Gray).

Ostacolare il gioco rischioso e di movimento può causare molti danni, come sostiene Ellen Sandseter nella sua ricerca intitolata Prospettive evolutive del gioco rischioso nei bambini: effetti antifobici delle esperienze emozionanti: “il nostro timore che i bambini si facciano male potrebbe avere come risultato bambini più paurosi e un aumento delle psicopatologie”. Questo perchè i bambini che non vivono il rischio, non vivono nemmeno l’esperienza del cimentarsi con qualcosa di cui hanno paura per superare la paura stessa; senza questa esperienza liberatoria la paura può trasformarsi in fobia. I giochi rischiosi hanno un importante e insostituibile valore evolutivo: “i bambini hanno una vera necessità sensoriale di provare il rischio e l’eccitazione; questo non significa che ciò che fanno debba essere davvero pericoloso, ma solo che debbano sentire che stanno correndo un rischio. La cosa li spaventa, ma poi superano la paura” (Ellen Sandseter).

Dunque, possiamo dire anche che l’educazione al rischio è profondamente legata all’educazione emozionale. 

Esplorazione in natura, movimento, manipolazione di materiali naturali, imprevedibilità, ignoto, rischio, avventura, emozione, consapevolezza di sé, libertà…sono tutti aspetti che si integrano nella meravigliosa e vitale esperienza di apprendimento che caratterizza i bambini. Per questo il rischio e i giochi rischiosi possono essere considerati come un vero e proprio ambito pedagogico ricco di risvolti educativi preziosi.

Come fare per garantire alle bambine e ai bambini il diritto a sperimentare la pedagogia del rischio? Semplicemente, come suggerisce la professoressa Sandseter, lasciando loro la possibilità di giocare ai loro giochi preferiti: 

“Esplorare per conto proprio (lasciare i bambini liberi di scegliere dove e come indirizzare le loro esplorazioni, all’interno e all’esterno), 

Esplorazione delle altezze (come, per esempio, arrampicandosi sugli alberi), 

Maneggiare utensili rischiosi (come forbici, coltelli, cacciaviti, martelli ecc. ma anche bastoni e sassi, aiutando i bambini a padroneggiarli gradualmente), 

Giocare negli ambienti naturali (anche vicino all’acqua o al fuoco, prendendo consapevolezza del rischio e dei pericoli che gli elementi naturali comportano), 

Giocare a giochi rischiosi (oscillare, arrampicarsi, rotolare, sospendersi, scivolare. Sono giochi essenziali per sviluppare le capacità motorie, l’equilibrio, la coordinazione, la consapevolezza del corpo), 

Sperimentare la velocità (in bicicletta, dondolandosi sull’altalena o scivolando sugli scivoli).” 

Per noi adulti, allora, si tratta innanzitutto di fare un lavoro su noi stessi, sulle nostre paure e sulle nostre ansie che i bambini si facciano male giocando. Un lavoro di autoeducazione necessario per imparare a discriminare quali sono i rischi e quali i pericoli e per non cadere in un atteggiamento iperprotettivo che imprigiona e annulla il movimento e l’esplorazione dei bambini, così come il loro apprendimento e la loro emotività. Un percorso per imparare, usando le parole della Schenetti, ad essere capaci di “sostenere il rischio” delle esperienze dei bambini.

Per iniziare questo lavoro di autoeducazione, suggeriamo agli adulti di leggere La buca, di Emma Adbage, un albo illustrato che ha il pregio di farci vedere il mondo con gli occhi dei bambini che sanno che a stare fermi e zitti o a camminare solo dritto non può accadere nulla di male….ma, probabilmente, nemmeno nulla di buono. I bambini protagonisti di questo albo adorano giocare in quella che loro stessi hanno battezzato la Buca. Ma purtroppo se la devono vedere con degli insegnanti che la considerano semplicemente un luogo pieno di pericoli.

A volte i grandi non vedono più quello che per i bambini è ovvio e lampante e che è indispensabile per la loro crescita: “Adesso nella Buca crescono arbusti, cespugli e ceppi e ci si può giocare. È piena di salite e di discese, di rami e di sassi, e in un punto c’è del fango giallo che non finisce mai! Una volta Vibeke ha provato a scavare per tutto l’intervallo, ma il fango non finiva proprio mai! Il mio posto preferito di tutta la Buca è la Grande Radice. Lì si può giocare a qualsiasi cosa: a mamma orsa, a capanna, a nascondersi, al negozio…a tutto! Una delle piccole radici che spuntano dalla Grande Radice è tutta liscia e lucida. Da quante volte l’abbiamo afferrata per arrampicarci, si è tutta consumata. Come una maniglia. Non bisogna neanche giocare per forza allo stesso gioco, tanto c’è spazio per tutti. Alcuni fanno la gara di salti, altri si rotolano, mentre noi giochiamo alla famiglia dei caprioli. Un giorno ci inventiamo un percorso. Costruiamo ostacoli da superare passandoci sopra o sotto o attraverso. Il penultimo è un tronco su cui camminare in equilibrio e poi c’è una salita e le salite sono facilissime! È divertente. Pronti, attenti, via! Corriamo veloci e diventiamo tutti caldi in faccia Conosciamo ogni sassolino, ogni piccola radice. Si può anche giocare ai salvataggi. E a burrone infuocato. E con le corde per saltare si può fare a chi tocca più lontano.”

Bibliografia:

Maria Montessori, La scoperta del bambino, Garzanti, 1999

Michela Schenetti, Naturalmente gioco, «RIVISTA INFANZIA», 2013

Peter Gray, Il gioco rischioso: perché ai bambini piace e perché ne hanno bisogno,

Ellen Sandseter, Prospettive evolutive del gioco rischioso nei bambini: effetti antifobici delle esperienze emozionanti (2011) 

Enrico Roversi, Rischiando s’impara, 

Emma Adbage, La buca, edizioni Camelozampa, 2020

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